domenica 27 gennaio 2013

Metti una sera a cena a Casale di Carinola

di Susy Lieto e Enzo Falco "Ho una “creatura” che viene dal Vesuvio…" "E come la “curiamo”?" "…serve uno “scarpariello”!" " .. e come si fa?" "Con l’amore di un poeta della cucina!…ci vuole un tetto .. chi lo può mettere a disposizione?" La risposta è Tony Rossetti nell’azienda di famiglia a Casale di Carinola, azienda che produce da tempo immemore Falerno del Massico. Stiamo arrivando all’azienda Bianchini Rossetti. Piove e lo scenario che si preannuncia sulla strada sembra tutt’altro che allegro: c’é foschia ed il paesaggio é cupo. All’improvviso si arriva ad un canyon naturale le cui pareti laterali sono coperte di muschio e felci antiche ed il tetto è di foglie bagnate che riflettono mille colori. Dovrebbe opprimere questo tunnel scavato da un fiume ed invece ti allarga il cuore: sembra l’imbocco ad un posto che raccontano nelle favole. Salendo, perché la strada é in leggera salita, lo sguardo si perde alla tua sinistra sulle isole del golfo di Napoli e ti distrae dall’attesa di quello che troverai alla fine della salita. Le vigne sono ordinatissime e ti rimandano tutti i colori dell’autunno, sovrastano l’uliveto e rappresentano il “giardino”privato di una masseria del 1200.
C’è un guardiano alla masseria: un castagno antico di 600 anni il cui tronco pare le fondamenta di tutto il podere. Ci allontaniamo con calma dalla vigna ed arriviamo a casa Trabucco, da 500 anni abitazione della famiglia Bianchini Rossetti. E qui comprendi che l’azienda ha due nomi: Francesco e Tony, zio e nipote, anime di questo posto. Con orgoglio ed amore non ci mostrano le etichette dei loro vini ma i luoghi del ricordo: il giardino all’italiana, le mura di tufo, le stanze private con le cucine a carbone, il corridoio – serra con le piante che arrivano alle travi di legno del soffitto, la teca con le tantissime pipe fumate, le stanze dove ci si riunisce per degustare i vini …cucinando, insieme, sui carboni presi direttamente dai camini ad altezza uomo. Le chiacchiere in attesa dello chef, il poeta della cucina, Giuseppe Russo, l’amico Peppone, patron di S.E.S., vanno indietro nel tempo. Cominciano dai racconti delle zie avite che cucinavano direttamente sulle braci del fuoco prelibatezze nei “pignatielli”, passano per l’uso del “ruppino” ( frustino fatto con il nerbo del toro) e finiscono nella meravigliosa cantina scavata nel tufo, la casa dei vini e dei pipistrelli d’estate. Due i “capobranco”: Saulo per i vini di casa Bianchini Rossetti e Bricco per i pipistrelli.
Ma è arrivato lo chef ed è tempo di preparare. La “creatura” è il “piennolo” di pomodorini del Vesuvio, da cui lo “scarpariello”; esso necessita di pani adeguati ed infatti ce ne sono esattamente tre, quello di Grazzanise, quello di Limatola ed uno integrale di Pignataro Maggiore. Peppone è stato l’artefice, a partire dalla storica Enoiteca Prosit a Marcianise, di una ristorazione autentica che non è andata mai sopra le righe ed ha sempre rispettato le qualità intrinseche dei prodotti. Ed è con questo stile semplice che ha sempre conquistato sia i palati dei migliori gourmet sia di coloro che si sono accostati con intelligenza e voglia di capire ai temi dell’enogastronomia, sapendo sempre consigliare con discrezione e nel massimo rispetto del cliente. Di strada dal Prosit ne ha fatta: Miralago, Locanda delle Trame, in Salento quest’estate ed ora una nuova apertura a Caserta. A fine gennaio aprirà S.E.S (Sic Et Sempliciter).. semplicemente il cibo e il vino. Vedremo, ma intanto ci delizia, nell’attesa dello “scarpariello”, con un panino saporito, una pagnottella fatta fare apposta a Marcianise nella quale, tolta la mollica è stata inserita una genovese cotta a vapore ed una misticanza di insalatine condite all’agro. La piacevole dolcezza della cipolla, nel contrasto voluto con l’agro, dava un risultato finale davvero eccellente tanto da pensare che nella sua nuova impresa possa diventare una sorta di must, di colazione di mammà rivisitata. Come in tutte le cose il cibo richiama sempre ricordi e memorie antiche.
Su questo panino appetitoso beviamo il Falerno del Massico rosso Mille880 2009, il vino base dell’azienda. Ha un colore rubino con sfumature violacee: al naso si ha una prima percezione di vinoso cui fanno posto note di fiori rossi e di frutti come amarene e gelso; al gusto troviamo tannini piacevoli e non aggressivi. L’abbinamento, da un punto di vista tecnico, non è dei migliori, avrei preferito un bianco (che in realtà è uscito a fine pasto, un Falerno del Massico bianco Mille880, ma il 2011, splendido ma ancora troppo acido, per il panino sarebbe stato troppo giovane.. chissà forse un 2009..); tuttavia la piacevolezza del vino e la compagnia supplivano abbondantemente. E arriviamo al piatto principe, la ragione stessa della reunion. Peppone presenta una mafaldina con sugo di pomodorini del “piennolo” del Vesuvio e grande spolverata di pecorino di laticauda che alla sola visione si apriva, dovremmo dire il cuore, ma in realtà la sensazione riguardava decisamente lo stomaco. Grandissimo piatto che solo la scarpetta finale, “o scarpariello”, appunto, ha potuto soddisfare fino in fondo.
Il Saulo Riserva 2008 è uno straordinario accompagnamento. E’ un vino dal colore inchiostro, un rosso profondo e impenetrabile. Al naso è fruttato, di frutti rossi e neri maturi, come la ciliegia, l’amarena, il mirtillo, e a seguire note tostate e balsamiche, per poi finire con la liquirizia, pepe nero e tabacco. Al gusto colpisce l’intensità e la persistenza, con tannini eleganti ed una piacevolissima acidità che presuppongono una grande vitalità che il tempo sicuramente trasformerà in meglio. Grandissimo vino, longevo, che ci accompagna anche sulla pancetta laccata con giardiniera fatta al momento. Anche qui bellissimo contrasto tra il dolce del grasso, rimasto morbido, del maiale nero casertano con il miele della laccatura e l’agro, non aggressivo, della giardiniera nella quale spiccavano tra le altre cose, in particolare, il cavolfiore e la mela annurca. Mela annurca che ci ha accompagnato anche nel dessert, cotta al forno, servita con una crema al Calvados. Deliziosa. Ma deliziosa anche la chicca, sconosciuta ai più, che Tony Rossetti ha tirato fuori in abbinamento.
Il 20quattro20, non ancora uscito e che sarà imbottigliato l’anno prossimo in mezze bottiglie. E’ un vino dolce naturale che colpisce per i tannini accentuati e la morbidezza dovuta all’alcol ed agli zuccheri residui. Un vino quasi paradossale per la convivenza della componente di durezza con la morbidezza che sicuramente potrà accompagnare anche formaggi particolarmente acuti come gli erborinati. Sarebbe interessante provarlo anche col conciato romano. Un vino da meditazione e da emozioni vere. Bella la serata da Tony Rossetti, non solo per la bravura dello chef, non solo per i grandi vini della casa, non solo per la spettacolare cucina in cui dominavano il camino e il grande tavolo, ma soprattutto per quella straordinaria atmosfera che solo l’insieme di belle persone può dare.

Su filo dei ricordi… di Susy Lieto e Enzo Falco

Si dice che l’appetito vien mangiando. Ma questo non è sempre vero: in alcuni casi l’appetito vien ricordando. Ricordare antichi sapori, richiamati alla mente da episodi che ti riportano agli anni dell’infanzia quando alcune pietanze venivano considerate “cibo da grandi”. Ce ne sono alcune che ci siamo rifiutati con assoluta determinazione di bambino di assaggiare e che oggi vengono ricordate perché associate al sorriso di un padre, al frastuono di una riunione di famiglia, ad una ricorrenza. Eppure pensandoci noi il sapore di quel piatto non lo ricordiamo affatto e, nella migliore delle ipotesi, sappiamo che lo abbiamo assaggiato. Ma quando cominci, nel calore di un’amicizia, a parlare di tempi andati ecco che scatta la nostalgia proprio per quella pietanza, ne risenti gli odori, ne vedi i colori, hai l’acquolina in bocca che non è dettata dal ricordo di un sapore ma dal sorriso che si allargava sulla bocca dei tuoi genitori appena il cucchiaio si avvicinava alla bocca. E allora scatta l’urgenza: sì ci vuole una minestra maritata, ci vuole un gattò di patate, un sartù di riso, una pasta e zucca fatta con la zucca che si trovava nelle campagne delle gite domenicali sulla bancarella del contadino, una “scarorella aulive e chiapperi” appena croccante e con un’”anima” al tempo stesso dolce e amara.
Ed in questo caso l’urgenza ha incontrato la passione di un’aziendalista che ama scavare in vecchie ricette e di un sommelier che è disposto ad assaggiare il frutto di questa ricerca. Ma l’approccio non è quello scientifico solito: la ricerca è fatta interrogando mamme, zie e vecchie governanti. E così dalla sapienza di Giovanna nasce la minestra maritata e da quella di Nunzia un’infinità di ricette con la zucca lunga napoletana. E Giovanna è la memoria (God save Giovanna!!!) che ancora adesso ricorda e sa rifare l’antico “pignato grasso” mirabilmente descritto da Vincenzo Corrado nel suo “Il cuoco galante”, che ha subìto come è ovvio le modifiche del tempo e le diversità legate ai diversi territori. Così abbiamo i tre brodi dati dalle tre carni diverse, gallina, maiale e manzo; abbiamo almeno sette tipologie di verdure, scarole, bietole, cicoria, broccoli, cime di rapa, verza, broccolo nero di Natale (è riuscita a trovare anche quello), torzella (la cui coltivazione è ripresa solo negli ultimi anni, un antico cavolo greco conosciuto già dagli antichi romani).
Abbiamo l’osso di prosciutto, le tracchiolelle (costine di maiale) e il piede. E poi il grande e animatissimo dibattito se mettere la “nnoglia” o la salsiccia di polmone, risolta brillantemente mettendole entrambe. Il risultato finale è straordinario. Tendenza dolce e minerale delle verdure fortemente insaporite dal brodo (appena schiumato) ottenuto dalla ricchezza delle diverse carni. Sapori unici da preservare perché destinati all’oblio, all’abbandono definitivo, sacrificati alla logica perversa di una finta modernità che ama cibi edulcorati e stili di vita solo apparentemente più salutari. In abbinamento un piedirosso della zona del Falerno del Massico, di Casale di Carinola. Alfredo Imparato, il produttore, lo realizza come fosse un Falerno, perché pur mantenendo la freschezza che ci interessava ai fini della tendenza dolce della verdura e del grasso, è alcolico (per la succulenza), consistente (per le carni) e dai grandi profumi (per la molteplicità di aromi concentrati in questo piatto unico). Un vino che anche se aperto due ore prima, il meglio di sé lo ha dato dopo sei ore, il che ci fa capire che i grandi vini hanno bisogno di ossigenarsi molto prima di liberare i milioni di molecole olfattive che la natura prima e il tempo dopo sono riusciti a creare. All’inizio erano solo fiori e frutti rossi, freschi, poi si sono trasformati in spezie, fino ad uno splendido bouquet finale.
Certo per tutto questo ci sono stati dei complici: coloro che assaporando nel calore di una casa privata il “cibo da grandi” ha rivissuto i ricordi. Siamo sicuri che ognuno ha rivisto il sorriso di chi ama ed il ricordo di chi da bambino gli ha detto : assaggia dai..se non ti piace lo sputi Ebbene, nelle “cene dei ricordi” la particolarità è stata tornare a casa con il “pacchetto” per fare assaggiare la minestra o la pasta a mamma e papà! Siamo contro l’oblio dei saperi e sapori della nostra terra, quelli che ci hanno accompagnato sul filo della memoria e che è bene condividerli insieme ad amici vecchi e nuovi. La riscoperta del cibo è riscoperta comune di emozioni e di persone con le quali, e questo è il fine ultimo di ogni cosa, si sta bene insieme.

Nelle terre di gomorra ci sono germogli che portano buoni frutti

di Enzo Falco La NCO non rievoca vecchie sigle che hanno lasciato segni di sangue dovunque alla fine degli anni ’80, gli anni in cui imperava ‘o professore vesuviano, ma è l’acronimo di Nuova Cucina Organizzata, ristorante, pizzeria, taverna che si trova in terra di gomorra, a San Cipriano d’Aversa. Certo territorio di gomorra, ma anche territorio di resistenza, di riscatto, di proposta alternativa alla cultura criminale imperante, non solo in quella terra, ma in gran parte della Campania.
E infatti la NCO è un ristorante gestito da una cooperativa sociale che opera nella costruzione di percorsi di legalità insieme alla straordinaria associazione fondata da don Ciotti, Libera! Il suo grande animatore è Peppe Pagano; la sua capacità è trasmettere la passione con la quale si occupa di “disagio psichico” in una formula innovativa che impegna e rende “utili” le persone che vengono assistite che si trasformano essi stessi in assistenti sociali. E lo fa in strutture sottratte all’illecito arricchimento dei camorristi, in Via Po a San Cipriano d’Aversa, quindi determinando un duplice effetto positivo. In questo la legge sulla confisca dei beni ai mafiosi e la loro reimmissione in un circuito legale quale quello di Libera è stata una vera e propria rivoluzione. Sulle terre si coltivano olio, vino, grano, frutta, ortaggi, tutti commercializzati con il marchio Libera, come libera deve essere la vita, come libera deve essere la terra che ha bisogno solo della sapiente capacità dell’uomo di rispettarla perché sarà ripagato da buoni prodotti. La NCO quei frutti te li fa assaggiare … le olive condite, le varie tipologia di pizza con verdura, la classica margherita, i paccheri prodotti a Gragnano con il grano delle Terre di don Peppe Diana (il prete che osò sfidare i camorristi “per amore del suo popolo…”), la superba parmigiana di melanzane, la mozzarella di bufala campana, quella prodotta sempre sulle terre confiscate. Insomma una filiera enogastronomica di assoluta qualità a costi contenuti. Lì vanno a mangiare le centinaia di ragazzi di Libera che vengono da tutti Italia a coltivare le terre negli stage estivi. Buoni prodotti, buon cibo, buona cultura.
L’ultima iniziativa nata ha un forte richiamo evocativo: “Facciamo un pacco alla camorra”. Si chiama così l’iniziativa che per il secondo anno consecutivo parte da Casal di Principe e ha come obiettivo la vendita di un cesto natalizio con dentro tutti i prodotti coltivati nelle “Terre di don Peppe Diana”, quelle confiscate ai clan. Al progetto partecipano tutte le cooperative sociali e le associazioni di volontariato ed è il tentativo di affermare un nuovo modello di economia sociale. Nel pacco ci saranno gli ortaggi sott’olio (melanzane, peperoni, ecc.) coltivati col metodo dell’agricoltura biologica, il miele, la cioccolata e altri prodotti realizzati grazie al lavoro di tantissime persone svantaggiate impiegate nei campi e nei laboratori. Il tutto sarà contenuto all’interno di una borsa da shopping “made in Castel Volturno”, prodotta dai soci, quasi tutti immigrati africani, della cooperativa sociale “Altri orizzonti by J. E. Masslo” che opera sul litorale domizio. E’ l’antimafia dei fatti. Acquistare il pacco o promuoverne la vendita è il modo migliore per contribuire allo sviluppo di una economia alternativa a quella criminale. Insomma un modo serio di costruire valori per una nuova comunità. E c’è anche Slow Food a sostegno. Infatti stasera (10 dicembre 2011), in occasione del Terra Madre Day, le condotte dei Campi Flegrei e quella del Massico Roccamonfina, insieme a quella nascente dell’Agro Aversano, organizzano una cena proprio alla NCO di San Cipriano. E loro che se ne intendono di cibo sanno il significato che il riscatto morale, sociale, culturale ed economico, passa attraverso una riqualificazione dell’agricoltura di queste terre che hanno sempre dato buoni frutti e devono ritornare a darli …. Non solo alimentari …. Per anni la camorra ci ha fatto “il pacco”? E’ arrivato il momento di restituirglielo noi il pacco, con gli interessi!!! Nuova Cucina Organizzata Via Po, 12 – San Cipriano d’Aversa Tel/Fax 081 8921807 info@nuovacucinaorganizzata.it http://www.nuovacucinaorganizzata.it/main.html

‘O baccalà…. e ‘o stocco…

di Enzo Falco « “Pesce Veloce del Baltico” dice il menù, che contorno ha? “Torta di mais” e poi servono polenta e baccalà cucina povera e umile fatta d’ingenuità caduta nel gorgo perfido della celebrità » (Paolo Conte, Pesce veloce del Baltico) Mai prodotto nordico è stato più mediterraneo. Diciamo subito che tre sono i miei punti di riferimento per il baccalà e lo stoccafisso: La Lanterna a Somma Vesuviana, Le Quattro Fontane a Casagiove e Fenesta Verde a Giugliano. In realtà la Campania è disseminata di locali specializzati, ma prima di parlare, in questa occasione, del luogo del “misfatto”, non si può non dire della capacità di questo pesce di sollecitare palato e fantasia dei napoletani. Che cosa fa di questo alimento un emozione e non solo un nutrimento? Un nutrimento, peraltro, assolutamente salutare vista la presenza di grassi insaturi come gli omega3. Ma si può parlare di semplice alimento se questo strano pesce che, finchè è nel mare si chiama merluzzo e quando ne esce prende due nomi diversi come baccalà e stoccafisso, è entrato nel DNA, nel corredo cromosomico dei campani e non solo (vedi la citazione di Paolo Conte)? Il successo deriva innanzitutto dal sapore ineguagliabile delle due versioni, ma ovviamente anche dalla capacità di conservazione, salato il baccalà, essiccato all’aria fredda lo stoccafisso. Facile da conservare ma molto più complessa la fase di rinvenimento. La dissalatura è una delle operazioni più difficili per avere un prodotto di base eccellente; bisogna metterlo in acqua, o meglio ancora sotto il filo d’acqua corrente e bisogna controllarne lo stato e la consistenza con puntuale precisione, perché se insufficiente, il baccalà resterà salato, viceversa risulterà “scemo” e insipido di sapore. Per lo stoccafisso l’operazione è ancora più difficile perché bisogna prima percuoterlo senza rovinarlo e poi fatto rinvenire in acqua, fino a che non moltiplica il proprio volume quattro o addirittura cinque volte.
Un tempo sia il baccalà che lo stoccafisso erano considerati “alimenti dei poveri”. Su questo prodotto dei mari del nord si sono combattute vere e proprie battaglie non solo commerciali. Nel 1500 i napoletani riuscirono a farla franca alle gabelle inglesi (che avevano il monopolio della commercializzazione), prendendo direttamente contatto con le popolazioni scandinave, cui portavano agrumi, lana, olio, vino e canapa ed imbarcavano resine, legna pregiata ed, appunto, baccalà, tanto baccalà, ottimizzando il trasporto e sfuggendo alle tasse di ormeggio inglesi. Per questo il prezzo si manteneva basso e quindi accessibile anche ai più poveri (che in realtà mangiavano le parti meno pregiate, come la coda, peraltro buonissima con le patate). Oggi, dopo una fase di ubriacatura per la carne, baccalà e stoccafisso sono ritornati in auge proprio per la loro bontà e la straordinaria capacità di molti ristoratori di riprendere vecchie ricette, riproposte tal quale, o reinterpretate in modo più moderno. I napoletani sono tra i maggiori consumatori di baccalà (forse solo i portoghesi ci superano… pare che abbiano 366 modi diversi di cucinarlo, un giorno in più di quelli dell’anno) e non è un caso che a Somma Vesuviana, famosa per le albicocche, i pomodorini del piennolo e il vino da uva catalanesca, si trovano le più grandi aziende di importazione, trasformazione e vendita del baccalà. ‘O mussillo e baccalà, oppure ‘o cureniello e stocco, sono entrati non solo nel linguaggio corrente ma hanno contaminato fortemente il linguaggio gastronomico atteso che si riferiscono alle parti più nobili e amate di questo pesce, il filetto per il baccalà, la pancia per lo stoccafisso. E poi le preparazioni, lesso e con un filo d’olio a crudo (rigorosamente accompagnato da olive verdi, aglio e prezzemolo), arrosto, fritto, in cassuola con i pomodorini, capperi e olive nere di Gaeta (che condiscono meravigliosamente la pasta, paccheri in particolare), è un esplosione di sapori cui è difficile resistere. Anche i più ritrosi non possono che arrendersi alla delicatezza di uno stoccafisso in bianco, o alla potenza di un baccalà prima fritto e poi ripassato in cassuola con i pomodorini.
Un’antica trattoria che lo sa “lavorare” bene e ne esalta il sapore è sicuramente “Le Quattro Fontane” di Casagione. Al di là della tradizionale e famosissima “pettola e fagioli”, in questa stagione si trova il maiale nero casertano con fegatini con rete, zuppa di suffritto, costolette con pupacelle, tianiello (tracchie-salsiccia-cotica), cotiche e fagioli, e l’immancabile mozzarella di bufala campana dop con maccheroncini con provola e melanzane, costata dissossata alla brace, mozzarella impanata, involtino di melanzane con provola. E poi incomincia con il baccalà marinato, poi fatto con le patate, poi a polpette; poi ti porta le oriecchiette al sugo “rosè” di baccalà che solo chi non conosce la loro cucina potrebbe immaginare un piatto leggero, laddove, invece, si tratta di un piatto di una straordinaria consistenza e forza che, a stento, un aglianico del Taburno (nell’occasione Terre di Chiusi), riesce a contenere. E infine il baccalà fritto, alto e sfoglioso, dorato all’esterno che, quando lo apri disvela questo bianco splendente, consistente… croccante e morbido al tempo stesso. Una vera delizia, un passaggio obbligato per qualunque appassionato. Se poi il pranzo che un tempo era dei carrettieri viene sostenuto, oltre che dagli altri commensali, anche dalle donne presenti al tavolo che, oltretutto apprezzano anche il rosso che abbiamo bevuto in abbinamento, beh, il piacere della tavola diventa assoluto. Una nota di merito per “Le Quattro Fontane” è l’essere stato pronto a sostenere lo stesso menù per un commensale celiaco. Non è da tutti e questo è sicuramente un limite per il mondo della ristorazione, visto il diffondersi sempre più di intolleranze alimentari. Insomma una tappa obbligata. Costo un pò elevato, ma “‘a spesa vale ‘a mpesa”. Le quattro fontane via Quartier Vecchio, 60 Casagiove (Ce) 0823 468970. Da segnalare ovviamente: La Lanterna, Via Colonnello Aliperta, 8 – Somma Vesuviana (Na) Tel. 081.8991843 Fenesta Verde (Giugliano, NA). Vico Sorbo, 1. Giugliano (Napoli) 081 8941239